Nel 1999, nei giorni dei bombardamenti della Nato su alcune città serbe, "ABC" arrivò a Kragujevac mentre le macerie della fabbrica Zastava erano ancora "fumanti". L'emozione di quei giorni spinse l'associazione a cominciare il sostegno a distanza dei figli degli operai dell'industria serba rimasti senza lavoro e senza futuro.
I ricordi di quel periodo sono dominati da uno slogan: "Tornare alla campagna". Era quella la parola d'ordine che per un lungo periodo accompagnò il cammino a ritroso della ex Jugoslavia verso l'era preindustriale. Intere pagine dei giornali serbi erano dedicate a questo dibattito, una sorta di suggerimento, una via d'uscita per gli operai delle molte fabbriche bombardate dalla Nato in 51 giorni di guerra. Nel 2000 cominciammo il sostegno a distanza anche in altre due fabbriche di Nis, l'"Elektronska Industria" e la "Mascinska Industria".
Da allora sono passati diversi anni, ma molte famiglie italiane continuano ad aiutare i giovani serbi.
E' giusto dire che, nonostante i passi in avanti dell'economia serba, l'emergenza, nei Balcani, non è ancora passata. Secondo fonti ufficiali internazionali il tasso di disoccupazione è salito e il divario fra salari e prezzi al consumo tiene il 60% dei cittadini serbi a ridosso della soglia di povertà e un terzo addirittura al di sotto. Gli indicatori economici confermano un quadro contrastante: il salario medio mensile è oggi di 200 euro rispetto ai 50 di cinque anni fa; gli investimenti stranieri, in questo lasso di tempo, hanno raggiunto un miliardo di dollari l'anno con un sensibile aumento dei flussi; l'inflazione dal 2000 al 2004 è passata dal 120% al 13%, ma tende a risalire. Il tasso di disoccupazione, ufficialmente stimato al 28%, è elevatissimo. Insomma, sono sempre dolori per tutti! Dolori soprattutto per le centinaia di operai dei quali possiamo parlare perché li conosciamo personalmente, tutti, uno per uno. E', infatti, dal 1999 che due volte l'anno, nella "Zastava" di Kragujevac e nell'"Elektronska Industrija" e "Min-Fitip" di Nis, vengono a prendere le borse di studio che gli amici italiani continuano a far giungere loro attraverso di noi.
Al di là dei dati ufficiali, parlando con qualcuno di loro a Kragujevac esce fuori che il salario medio degli occupati è di 17.200 dinari circa (vale a dire circa 209 euro), ma questo salario medio scende a 13.500 dinari (164 euro) se si considerano anche i lavoratori in cassa integrazione. Ci sono poi i licenziati e gli autolicenziati. A Nis, nel profondo Sud della Serbia, il salario medio è ancora più basso.
Tutti, grandi e piccoli, poveracci e nuovi ricchi, in compenso, aspettano che qualcuno compri le fabbriche inserite nella lista delle aziende da svendere e, con speranza, la loro successiva ristrutturazione. Nel sito del nostro Istituto Commercio Estero c'è una sezione dedicata a Serbia e Montenegro (ma anche alla Bosnia) dal nome significativo: "Investimenti e privatizzazioni: assistenza alle imprese italiane".
Anche i genitori degli alunni delle tante scuole che frequentiamo a Backa Topola, Belgrado, Novi Sad, per non parlare della Bosnia, non vivono meglio. Molti di loro sono operai, altri contadini, altri artigiani, pochi occupati e tanti disoccupati. Noi ci siamo fatti, per capire meglio, il famoso "ragionamento della serva": se il tasso ufficiale di disoccupazione è al 28%, questo vuol dire che 28 su 100 dei genitori dei ragazzi che seguiamo, bene che vada, non lavorano. Se poi consideriamo il terreno sociale nel quale s'inseriscono i nostri progetti, possiamo tranquillamente raddoppiare la percentuale raggiungendo il 56%. Potremmo, infine, considerare quelli che lavorano per stipendi da fame...
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